definizione
La spiegazione più comune del termine «metaprogramma» è «mappa delle mappe» o «metastrategia»: possono essere considerati automatismi attraverso cui una persona decide quale strategia adottare per gestire i propri rapporti con l’ambiente e le persone; occorre ricordare che il prefisso greco μετα– (meta → con, oltre, dopo, dietro …), nel linguaggio moderno assume una componente trascendente e viene utilizzato per indicare un concetto che rappresenta un’astrazione implicita o nascosta dietro un altro concetto oppure per completare ed aggiungere un significato ulteriore a quest’ultimo, indicando una sorta di mutamento, trasformazione o trasposizione: pertanto i «metaprogrammi», riferendosi alle funzioni corporee, devono essere considerati programmi che stanno oltre i programmi di base, che portano il controllo e la gestione su piani più elevati del semplice essere in attività e reagire automaticamente.
Quando parliamo di “meta” programmi, prendiamo in considerazione i filtri che utilizziamo per discriminare su quali aspetti della realtà porre la nostra attenzione, anche se non sempre ciò avviene in modo conscio e consapevole; ci avventuriamo nel mondo dei significati presenti oltre la realtà apparente ovvero, cominciamo ad esplorare le modalità con cui eliminiamo delle parti “oggettive” della realtà, creando una nostra personalissima e soggettiva «mappa mentale» per rappresentare ciò che ci accade, in grado di condizionare il nostro modo di vedere e interpretare la realtà: i «metaprogrammi» sono schemi di comportamento che generalmente abbiamo costruito nel tempo, in base alle nostre esperienze, «metastrategie» che mettiamo in atto per confrontarci e gestire i nostri rapporti con il “mondo”.
Anche se siamo in grado di modificarli o è possibile che subiscano trasformazioni nel tempo oppure che risentano dei nostri stati d’animo o delle pressioni che subiamo, rappresentano lo stile di pensiero ed i modelli di apprendimento che utilizziamo; determinano il framework attraverso cui decifriamo ed inquadriamo la realtà, le modalità attraverso cui ciascuno struttura la propria mappa mentale del mondo e, nello stesso tempo, sceglie ed organizza le proprie esperienze.
un po’ di storia:
da Carl Gustav Jung alla PNL
(passando per John Cunningham Lilly)
La necessità di categorizzare per poter comprendere noi stessi, gli “altri da noi” ed il mondo che circonda, in tutte le sue manifestazioni ed implicazioni, è una necessità intrinseca all’uomo: già nel 1921, Carl Gustav Jung sentì l’esigenza di inquadrare il genere umano, per poterlo meglio analizzare, creando delle tipologie per descrivere gli schemi di comportamento, delle suddivisioni per collocare le predisposizioni individuali ad agire secondo modalità prevedibili; nel suo libro «Tipi Psicologici» scrive
«Il tipo è un esempio od un modello del carattere peculiare di una specie o di una collettività. Nel senso più ristretto di questo lavoro, il tipo è un modello caratteristico di un atteggiamento generale, che si manifesta sotto diverse forme individuali. Dei numerosi tipi possibili in questa sede ne ho definiti quattro; essi sono quelli che seguono le quattro funzioni psichiche fondamentali: il pensiero, il sentimento, l’intuizione, la sensazione. Quando un tale atteggiamento è abituale e caratterizza l’individuo, io parlo di tipo psicologico. I tipi basati sulle funzioni fondamentali si possono chiamare: tipo di pensiero (o logico), tipo sentimentale, tipo intuitivo, tipo sensoriale; tutti questi tipi si dividono in razionali e irrazionali. Ai primi appartengono il tipo di pensiero e quello sentimentale; ai secondi il tipo sensoriale e il tipo intuitivo. Infine, le preferenze della libido permettono di distinguere introversi ed estroversi. Tutti i tipi fondamentali possono appartenere ad ambedue le classi, secondo che domini l’introversione o l’estroversione.»
L’idea di Jung è che esitano delle tipologie in grado di spiegare predisposizioni comportamentali, come se ognuno di queste categorie possedesse un programma predeterminato e cogente in grado di condizionare le modalità di interazione e comportamento; gli otto tipi junghiani sono l’interazione fra le funzioni fondamentali dell’essere umano (logica – sentimenti – intuizione – sensorialità) e la proiezione verso il sé (introverso) o il mondo (estroverso) che creano il tipo pensiero-estroverso, il tipo sentimentale-estroverso, il tipo intuitivo-estroverso, il tipo sensoriale-estroverso, il tipo pensiero-introverso, il tipo sentimentale-introverso, il tipo intuitivo-introverso, il tipo sensoriale-introverso.
La dualità introversione/estroversione rappresenta una differenza di “programmazione” fondamentale per l’individuo, incidendo significativamente sull’esecuzione di molte routine di base e condizionando i servomeccanismi relazionali; un metaprogramma (cioè una mappa concettuale) determinante per l’orientamento comportamentale. Jung afferma:
«Chiamo introversione il rivolgersi della libido verso l’interno del soggetto. … L’uomo introverso pensa, sente e agisce in un modo che mostra chiaramente che è il soggetto a determinare ogni suo atteggiamento, mentre l’oggetto ha solo un’importanza secondaria. L’introversione può avere un carattere intellettuale o affettivo; essa può anche avere come suo carattere distintivo l’intuizione o la sensazione; essa è attiva se il soggetto vuole isolarsi dall’oggetto; è passiva quando il soggetto è incapace di ricondurre sull’oggetto la libido che se ne ritrae. L’introversione abituale è caratteristica del tipo introverso»
«Estroversione significa orientamento della libido verso l’esterno. … Nello stato di estroversione si pensa, si sente e si agisce relativamente all’oggetto, in modo evidente e direttamente percettibile, tanto che l’atteggiamento positivo del soggetto riguardo all’oggetto è fuori di dubbio. In un certo senso, è un atto di trasferimento dell’interesse del soggetto nell’oggetto. Se si tratta di un’estroversione del pensiero, il soggetto si pensa in qualche modo nell’oggetto; se si tratta invece di un’estroversione del sentimento, questo compenetrerà l’oggetto come dall’interno. Nello stato di estroversione il soggetto è fortemente ma non esclusivamente condizionato dall’oggetto. L’estroversione è attiva quando è intenzionale, voluta dal soggetto; passiva, al contrario, quando è l’oggetto che l’ottiene con forza, attirando, suo malgrado, l’interesse del soggetto. L’estroversione abituale produce il tipo estroverso».
Introversione/estroversione non rappresentano una dualità assoluta, ma si manifestano con un peso diverso, secondo una logica combinatoria che configura uno spettro, dove ognuno i pone più vicino ad uno degli estremi: non solo non esistono manifestazioni pure, in quanto l’essere introversi o estroversi, pur esprimendo una tendenza, dipende dall’altro con cui ci si confronta, ma ognuno può avere fasi in cui la predisposizione si esprime con maggiore o minore intensità.
Nel 1967, il neuropsichiatra, “psiconauta” e filosofo John Cunningham Lilly, riprese questi studi, approfondendoli; nel suo lavoro di analisi, comprese che i «Tipi Psicologici» junghiani sono caratterizzati dalla presenza di schemi comportamentali che, nel libro «Programming and Metaprogramming in the Human Biocomputer» (1972), definì «LAB profile» (Language And Behaviour profile): un insieme di filtri percettivi, utilizzati per interagire con il mondo, che agivano da metaprogrammi, cioè programmi in grado di controllare subroutine comportamentali. Leslie Cameron-Bandler, Richard Bandler e John Grinder ripresero l’argomento utilizzando il concetto di metaprogramma all’interno della PNL (programmazione neuro linguistica ) e Rodger Bayley li applicò nel campo del marketing e delle vendite.
biocomputer e metaprogrammazione
Il termine «human biocomputer», coniato da John Cunningham Lilly, è utilizzato in riferimento alla componente “hardware” del corpo umano. cioè l’insieme delle componenti fisiche che lo caratterizzano, siano esse le strutture deputate al controllo (sistema neuro-ormonale) o gli organi e gli apparati effettori (apparato cardiovascolare e respiratorio, apparato gastro-intestinale, sistema immunitario, apparato osteo-artro-muscolare …); così come paragoniamo le parti fisiche all’hardware, possiamo assimilare il “software” ai programmi ed ai metaprogrammi che lo fanno funzionare.
Mentre i programmi possono essere definiti come un “set di istruzioni” per far “lavorare” il corpo, soprattutto nelle mansioni legate al mantenimento dei set point omeostatici, i metaprogrammi devono essere considerati come sovrastrutture in grado di condizionarne il funzionamento; l’interfacciamento fra un essere vivente e l’ambiente in cui vive, il suo ecosistema di riferimento, necessita di “set di istruzioni” in grado di attivare servomeccanismi e servosistemi programmati per reagire autonomamente, in risposta alle variazioni dinamiche che caratterizzano questo rapporto biunivoco. Una parte di questi programmi sono predeterminati geneticamente, altri vengono acquisiti nelle prime fasi della vita o attraverso le esperienze precoci, l’educazione i condizionamenti tribali, venendo “immagazzinati” nella memoria implicita, rappresentando ciò che sappiamo ma non ricordiamo di aver imparato.
Le transazioni che si instaurano fra l’ambiente ed il corpo fisico necessitano di essere gestite ed elaborate per evitare che i confini che li separano vengano superati inopinatamente: è il sistema nervoso, che rappresenta il substrato “chimico-fisico” della percezione, delle sensazioni, delle emozioni, dei sentimenti e del pensiero cosciente, che si incarica di fare da interfaccia fra questi due mondi, per permettere che avvengano interazioni e interrelazioni sicure; i programmi di base rappresentano le routine (o le sub-routine) che hanno il compito di far funzionare l’hardware, cioè il corpo, ogni volta che ci sono cambiamenti significativi dell’ambiente esterno o che altri biocomputer si pongono in relazione col soggetto (provocando mutazioni dell’equilibrio interno, cioè del «milieu intérieur»).
La suzione, la nutrizione, il bisogno di abbracciare ed essere abbracciati, l’integrità fisica, il confort e la sopravvivenza sono alcune fra le procedure “elementari”, frutto di meccanismi di imprinting che si creano nella prima infanzia, che condizionano l’attitudine che la persona assumerà nella vita: se le esperienze sono positive, l’impronta che ne riceviamo determina tendenzialmente una visione ottimistica e di fiducia, mentre un’impronta caratteriale negativa rendendo proni all’ostilità, alla diffidenza ed ad atteggiamenti di elusione o fuga, predispone l’organismo ad attuare dinamiche di tipo rettiliano (R-Complex). Altri programmi base, legati al controllo del territorio ed al domino/sottomissione, sono sviluppati nel periodo del gattonamento e dell’acquisizione degli schemi di movimento; in questa fase si cominciano ad attivare le aree corticali a cui consegue l’acquisizione della capacità di comprendere simboli, step evolutivo che apre la porta allo sviluppo del linguaggio, alla relazione con l’ambiente, alla capacità di inventare, calcolare, di attuare comportamenti predittivi, determinando la creazione di mappe mentali per inquadrare la realtà: la creazioni di gruppi di istruzioni finalizzate alla gestione delle esperienze rappresenta lo sviluppo dell’attitudine alla metaprogrammazione, che implica la possibilità di creare, revisionare e riorganizzare i programmi di base e altri metaprogrammi “compilati” in precedenza. Affondano le loro radici nella genetica, tanto che molti di essi sono addirittura pre-verbali e si installano attraverso le prime esperienze di relazione del neonato con gli adulti e l’ambiente in cui vive, essendo legati ai ritmi dell’organismo, alla relazione con la madre, alluso dei sensi, ai movimenti alternati del corpo: poiché la percezione si attua per differenze e somiglianze, ognuna di queste codifiche è appresa come manifestazione che si esplica lungo un asse a due polarità percettive, del tipo pieno/vuoto, luce/buio, presente/assente, e così via; i metaprogrammi corporei (percettivi o motori) sono la base per quelli cognitivi e linguistici che non potranno che conformarsi ai precedenti, assumendo anch’essi una forma bipolare del tipo normale/trasgressivo, autonomo/dipendente, classico introverso/estroverso.
Ogni schema acquisito diviene la matrice per svilupparne di più articolati e complessi in quanto la metaprogrammazione rappresenta la capacità di rielaborare sia programmi di base, sia le informazioni ed i dati gestiti da questi programmi: la consapevolezza del sé permette di valutare gli effetti delle routine acquisite tramite imprinting ed eventualmente riprogrammare, cioè trasformare o modificare gli schemi di risposta agli eventi; l’attitudine a rielaborare i vissuti ed ad interpretare la realtà secondo schemi alternativi, in assenza di stress, permette alle aree corticali di rivedere le strategie di gestione degli eventi e attuare comportamenti teleologici in grado di ottimizzare le risorse a disposizione. Lo sviluppo delle capacità di coping, soprattutto quando sostenute dal consolidamento di esperienze positive, offre l’opportunità di incrementare l’efficienza e la performance, migliorando la capienza e la resilienza individuale, rimodulando e “metaprogrammando” le routine.
realtà soggettive
L’attenzione è un processo cognitivo che permette di selezionare, in un dato momento, alcuni stimoli ambientali e di ignorarne altri tra i molti disponibili: l’interesse verso alcune informazioni a discapito di altre, deve essere considerato una modalità assolutamente soggettiva di relazione con tutto ciò che è “altro da sé”, come la maggioranza delle funzioni mentali che hanno a che fare con la percezione della realtà. Anche le strutture fisiche deputate alla percezione, potendo avere differenti sensibilità o sensitività, sono in grado di condizionare il nostro modo di “essere impressionati” dal mondo, di conseguenza, le nostre sensazioni non solo risentono delle caratteristiche dell’“hardware”, i recettori, ma sono anche condizionate dal “software”, cioè dall’insieme di esperienze personali ed influenze che abbiamo subito nel corso della nostra vita.
Un metaprogramma non è null’altro che uno “snippet”, un blocco di codice, che funge da filtro alla parte conscia della mente, così che non venga sovraccaricata da un “eccesso” di informazioni: è uno schema che ci serve per inquadrare e standardizzare le informazioni che potremmo cogliere, selezionando quelle che riteniamo di poter processare e che “adattano” al nostro framework mentale: questo va a determinare la realtà percepita. Queste mappe, che ci servono per orientarci nella realtà, diventano al tempo stesso, lo schema attraverso cui scegliamo ed organizziamo le nostre esperienze in essa: ognuno di noi può sviluppare un numero infinito di metaprogrammi, anche se ci sono alcune “strutture mentali” comuni alla maggioranza degli esseri umani, caratterizzati da una dualità di comportamenti antitetici; in genere siamo portati ad agire in modo prevedibile, seguendo le modalità percettive/reattive che inconsapevolmente ci siamo scelti, anche se è sempre possibile che ci relazioniamo con qualcuno che manifesta quell’attitudine in modo più enfatico.
Abbiamo la tendenza a collocarci verso una delle due polarità, trovando “sbagliata” o “innaturale” quella opposta, anche se non ci comportiamo necessariamente sempre nello stesso modo: è’ più appropriato parlare di “inclinazioni”, “tendenze”, oppure “impostazioni di default”; in sintesi, i metaprogrammi, che si formano nel processo di crescita e possono subire variazioni qualora si verifichino esperienze ed eventi che abbiano un impatto significativo, sono ciò che determina i comportamenti e che rappresenta i criteri che dovrebbero permettere alle persone di cercare di essere in equilibrio e congruenti con se stessi e con le proprie “idee”.
Sono i riferimenti con cui la persona aggrega valori, credenze e capacità.
metaprogrammi e Kinesiologia Transazionale®
L’essere umano è una creatura abitudinaria, che tende a vivere la propria quotidianità attraverso la creazione di routine; le consuetudini ed il trantran di ogni giorno, per quanto monotoni, garantiscono sicurezza e predittività: la certezza della reiterazione degli eventi, nonostante possano essere insoddisfacenti nel lungo periodo, riduce la probabilità di dover fronteggiare situazioni inaspettate o sfide che possono creare un sovraccarico o un pericolo e, di conseguenza, uno stress.
Comprendere i programmi che sottostanno alle nostre abitudini, riconoscere i sistemi di credenza che condizionano i comportamenti è un passo fondamentale per poter modificare la nostra condotta, “riprogrammando” le routine non più adatte ai contesti: il sistema nervoso è in grado di elaborare metaprogrammi alternativi alle procedure usuali, ricontestualizzando servomeccanismi e procedure in modo che si rivelino più efficaci per soddisfare eventuali nuove esigenze maturate nel tempo.
L’elenco di programmi condizionanti, che ci impediscono di sfruttare appieno le nostre potenzialità, potrebbe essere lunghissimo: le posture che abbiamo assunto nel tempo, come conseguenza di un habitus antalgico che ci portiamo dietro come una corazza che dovrebbe assolvere il compito di proteggerci dalla sofferenza; ciò che ci è stato insegnato, le credenze tribali, le regole o le conoscenze apprese che non abbiamo mai potuto o voluto verificare e sindacare, nonostante sapessimo che non corrispondevano a ciò che percepivamo e sentivamo come vero. Quell’insieme di sistemi di credenza, negazioni ed elusioni che hanno costruito una sorta di sovrastruttura, andando a rafforzare risposte istintuali basate su dinamiche riconducibili alla “fight and escape response” di rettiliana memoria che sommandosi a “comportamenti cablati” predeterminano i comportamenti stereotipati che attuiamo come risposta agli stressor da cui veniamo “bombardati” quotidianamente: anche se ci siamo apparentemente evoluti, in noi vive ancora l’”Homo Sapiens” di 200.00 anni fa che deve combattere furiosamente o fuggire quando si sente minacciato perché esistono dei collegamenti precostituiti, frutto mi migliaia di anni di “semplificazioni” e “ottimizzazioni” volte a accelerare le velocità di risposta, come se fossero stati inseriti delle schede o dei circuiti stampati nel nostro cervello. Come si suole dire:
«puoi far uscire (evolvere) una persona dall’Età della Pietra, ma non puoi far uscire l’Età della Pietra dalle persone»
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