definizione e significato
Anglismo che, tradotto letteralmente, significa “bruciato” o “consumato dal fuoco”, una descrizione semplice e chiara, che vuole sottolineare come ci si sia “esauriti”, bruciando fino in fondo, come se la fiamma avesse consumato tutta la legna disponibile; in italiano i termini esaurito o logorato rendono l’idea, anche se l’immagine nel termine inglese è più intensa, volendo quasi sottolineare il fatto che il fuoco si è estinto per consunzione; nel linguaggio comune possiamo parlare di esaurimento nervoso, tracollo psico-fisico, crollo, anche se spesso si sottolinea maggiormente l’aspetto neuro-psichico, trascurando la componente somato-emozionale.
In italiano, potremmo chiamare il burn-out col nome di “iperstress”, facendo coincidere la definizione con l’elemento causale: una forma di logoramento che altro non è che l’esito finale del processo di esaurimento causato da una sindrome generalizzata di adattamento irrisolta; il perdurare dello stress o l’elevata intensità degli stressor causa un depauperamento tale da portare il sistema neuro-ormonale ad una sorta di lock-down (blocco). La tendenza ad enfatizzare la componente psicologia deriva dal fatto che, spesso, il sovraccarico è associato alla componente relazionale o all’ambiente sociale in cui si muove chi viene colpito da questa sindrome: richieste prestazionali, standard elevati, necessità di raggiungere o mantenere performance elevate sono tutti fattori scatenanti o cofattori eziologici che facilitano il processo di esaurimento.
burn-out: sindrome da esaurimento professionale
Anche se sempre più spesso, lo stato di esaurimento somato-emozionale e psicofisico dell’individuo viene associato al mondo del lavoro, il burn-out può essere considerato un “deterioramento dell’anima”: fondamentalmente sottolinea una dicotomia, una “discrepanza” tra l’individuo, da un lato, ed il “mondo” con cui si relaziona, con gli obblighi e le priorità che non coincidono con i desiderata personali, dall’altro. Il continuo logoramento, causa una massiccia attivazione dell’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene (H.P.A.) con ipercortisolismo ed alterazione della secrezione di dopamina: la variazione neuro-ormonale e metabolica porta chi viene colpito dall’iperstress, a percepire se stesso come inetto, debole, incapace di impegnarsi o dedicarsi con responsabilità; frequentemente subentrano sensi di colpa per il proprio fallimento, portando chi vive questo disagio ad entrare in un loop negativo.
Sempre più spesso, nel mondo del lavoro, si focalizza l’attenzione sulle dinamiche interpersonali e gerarchie delle organizzazioni professionali, anche se, in realtà, l’iperstress è un fenomeno diffuso in ogni ambito, dallo sport alle relazioni interpersonali. Ovunque ci siano pressione sull’individuo e aspettative da soddisfare o doveri da ottemperare, è possibile che lo stress arrivi a soverchiare la capienza individuale, superando la resilienza e le capacità di coping , fino a indebolire la vitalità e la stamina di chi vive tutto questo come un “peso insostenibile”: in genere l’esaurimento delle risorse e delle difese porta a far sì che una semplice noxa , un fattore scatenante, una ulteriore minima richiesta, sia come la “goccia” che fa traboccare il vaso, il trigger in grado di provocare la manifestazione eclatante del burn-out
Spesso, la reazione a questo stato di “mal-essere” è l’insorgenza di un quadro di alienazione, una sorta di separazione da sé: apatia, anedonia , indifferenza associati a nervosismo o cinismo sono alcuni dei sintomi più comuni. Nell’ultimo quarto del novecento, la psichiatra americana Christina Maslach ha inquadrato il problema, soprattutto nell’ambito del mondo del lavoro ed ha definito il burn-out come una malattia comportamentale che affligge in modo particolare tutti coloro che esercitano una professione con forte implicazione relazionale: dal suo punto di vista, il lavoratore, colpito da questa sindrome, perde progressivamente interesse verso i propri utenti o referenti; è vittima di una sorta di spersonalizzazione; mostra una riduzione delle proprie capacità personali di relazione, come difesa per far fronte alle tensioni stressogene che si sono accumulate.
All’inizio del secolo attuale, Michael P. Leiter e Christina Maslach hanno identificato una triade sintomatologica per definire il burn-out in ambito lavorativo, soprattutto per quelle professioni che comportano la necessità di entrare in contatto con persone che vivono stati di disagio o sofferenza e che riversano notevoli aspettative su chi si prende cura di loro:
⇒ deterioramento dell’impegno nei confronti del lavoro;
⇒ deterioramento delle emozioni originariamente associate al lavoro;
⇒ difficoltà di adattamento tra la persona ed il lavoro, a causa delle eccessive richieste di quest’ultimo.
burn-out o non burn-out: sindrome da iperstress
L’orientamento attuale è di considerare il burn-out come una forma di esaurimento che si sviluppa solamente in un contesto lavorativo: per definizione, non dovrebbe essere esteso ad altri ambiti della vita, riducendolo ad un fenomeno occupazionale che non andrebbe confuso con altri i disturbi associabili allo stress. Infatti, si tende a escludere il burn-out occupazionale, alla presenza di situazioni di stress cronico associato ad altre situazioni, come quelle familiari o relazionali, ansia o fobie, disturbi di adattamento o dell’umore.
Il termine burn-out è utilizzato per descrivere una forma di esaurimento dell’energia vitale associato a tendenza all’alienazione e perdita delle motivazioni (come già descritto) indipendentemente dal contesto in cui si verifica o a prescindere dalle differenti caratteristiche degli stressor; l’essere umano non è un “individuo a compartimenti stagni”: i differenti aspetti della vita di ognuno sono come vasi comunicanti, in connessione fra loro.
Il quadro di dis-stress del burn-out, pertanto, non è esclusivamente conseguente all’impegno professionale in ambito assistenziale, ma dipende dall’eccesso di aspettative a cui ci si sente sottoposti: la percezione soggettiva di non essere in grado di fronteggiare, spesso a causa di una errata valutazione delle proprie capacità o risorse, le richieste a cui ci si sente in obbligo di rispondere è un elemento comune a chi subisce questo “meccanismo difensivo”, non limitando necessariamente il quadro all’ambito professionale. La chiave di comprensione risiede nel concetto di “esaurimento emotivo” associato ad una sorta di depersonalizzazione, una necessaria separazione dal sé sofferente: lo sviluppo di atteggiamenti elusivi o di evitamento, accompagnati dal senso di frustrazione ed insoddisfazione, sono un elemento costante nei quadri di logoramento da stress: l’azione sistemica causata dall’ipersecrezione di cortisolo, dipendente dall’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrenale, e gli squilibri delle catecolamine, in particolare della dopamina, favoriscono il manifestarsi di tendenze depressive, insonnia, tendenze fobiche, atteggiamenti psicotici o maniacali; spesso, si osserva la perdita dell’empatia verso gli altri, accompagnata da diminuita comprensione verso se stessi o, all’opposto, tendenza ad autocommiserarsi.
In genere, l’aumento del “carico emozionale”, l’incremento delle pressioni lavorative, le sollecitazioni dovute all’eccessivo stress somato-emotivo o il surmenage psico-fisico incrementano la sensazione di frustrazione ed i sentimenti di inutilità, incapacità, inadeguatezza, insoddisfazione: la sensazione di “essere sfruttati” o il sentirsi abusati, non apprezzati nonostante ci si senta oberati dall’impegno è un evento piuttosto frequente; questo disagio, spesso, si accompagna ad un aumento della reattività ed aggressività, soprattutto verso chi si considera, a volte inconsapevolmente, responsabile del mancato riconoscimento dell’impegno profuso.
La naturale evoluzione verso l’apatia è solo l’effetto dell’aumentato disagio che richiede un distacco, l’allontanamento dalla sofferenza: sensazione di sovraccarico, conseguente alla percezione di un carico eccessivo che rende impossibile il recupero; inidoneità dei contesti e delle richieste, cui ci si sente comunque obbligati a rispondere anche se ci si rende conto di non avere le abilità per fronteggiare la situazione; implicazioni emotive soverchianti, in grado di scatenare turbamenti o sentimenti in contraddizione con ciò che si prova; senso di impotenza, legato alla convinzione che ciò che si fa (o che vuole fare) sia ininfluente sull’esito di un determinato evento … ogni manifestazione di disagio è un potenziale trigger in grado di scatenare o contribuire alla nascita dello stato di dis-stress e di mal-essere.
Mancanza di controllo sulle risorse necessarie oppure insufficiente autorevolezza decisionale e relazionale; percezione di non ricevere riconoscimenti adeguati all’impegno profuso; perdita del “senso di appartenenza”, del sostegno, della fiducia e del rispetto dalle persone significative, causando un necessario distacco relazionale; impressione di non ricevere la necessaria equità, ovvero che altri abbiano benefici o vantaggi immeritati; conflitto di valori o perdita della visione comune o discrepanza fra quanto enunciato e ciò che si rileva nei comportamenti, nelle manifestazioni, nelle scelte operate e nella condotta: ognuno di questi “quadri”, manifestazioni di un disagio emozionale, può essere l’elemento causale responsabile, il fattore scatenante o uno dei cofattori eziologici, responsabili del burn-out, anche se molto spesso si osserva una multifattorialità che coinvolge più di uno, fra queste “distonie” . Le manifestazioni emotive si accompagnano, frequentemente, ai segni tipici dello stato dis-funzionale cui è sottoposto l’organismo: emicrania, bruxismo, cervico-brachialgia, lombosciatalgia, astenia e senso diffuso di tensione o debolezza, inappetenza, aerofagia o aerogastria, disturbi gastro-intestinali sono solo alcune manifestazioni del corteo sintomatologico del burn-out.
« all'indice del glossario