definizione
Letteralmente, «(gran) voglia di zucchero»: il verbo inglese «to crave» indica non solo il chiedere o il domandare, ma sottolinea l’implorare, l’aver bisogno, il desiderare ardentemente, addirittura il bramare; esprime urgenza e veemenza nell’ottenere. Talvolta il «bisogno di zuccheri» deve essere visto come una sorta di «ricerca di dolcezza» (coccole) e lo «sugar craving» potrebbe essere, a pieno titolo, inserito fra i «confort food».
Può essere considerata una forma di fame selettiva, che esprime desiderio quasi mai associabile al concetto di fame: le possibili cause sono piuttosto eterogenee e non sempre riconducibili a carenze selettive dell’organismo; il “consumatore di glucosio” sente la necessità dello zucchero, proprio come un alcolizzato sente quella dell’alcool, perché il cervello è condizionato a rilasciare “ormoni felici” ogni volta che il glucosio è presente. In alcuni casi si potrebbe parlare specificamente di “dipendenza dagli zuccheri”.
“carenza di zuccheri?”
Non sempre, però il «bisogno di zuccheri» deve essere necessariamente associato a componenti emotive: talvolta può essere l’espressione di ipoglicemia; quando l’apporto alimentare risulta insufficiente, quando “mangiamo male”, quando non sono presenti sufficienti proteine o grassi nei pasti, è possibile che si manifesti una riduzione degli zuccheri circolanti e che il cervello, rilevando la diminuzione della concentrazione ematica del glucosio, ci spinga a ricercare “combustibile” per l’organismo.
Gli zuccheri sono la forma più semplice ed efficace, nell’immediato, per introdurre energia nel corpo e compensare gli effetti di un digiuno o di, appunto, una «carenza di zuccheri»; la privazione di cibo, ancorché temporanea, può essere interpretata dall’organismo come un potenziale pericolo e pertanto essere letta come una forma di stress: la reazione organica, soprattutto se le manifestazioni carenziali sono marcate, può coinvolgere tutte le fasi della risposta generalizzata di adattamento, ivi compresa l’azione delle catecolamine sulla glicemia, l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (con la messa in opera della glicogenolisi e della gluconeogenesi) ed, ovviamente, le modificazioni comportamentali che ci inducono a “bramare” zucchero per compensare il senso di debolezza.
Ovviamente, in questo caso, dopo un momentaneo senso di appagamento (che può essere mimato anche dalla semplice assunzione di dolcificanti) non migliora la situazione ma, anzi spesso la peggiora: la soluzione più opportuna, come sarebbe l’introduzione di ammino acidi, in grado di prevenire il degrado muscolare e compensare la sensazione di fame, rompendo il circolo vizioso, detto «sugar craving cycle», caratterizzato dalla sequenza:
«bisogno di zuccheri» → assunzione di sostanze “dolci” (glucosio) → iperglicemia (picco dipendente dal rapido assorbimento) → secrezione di insulina → ipoglicemia reattiva → «sugar craving»
eccesso di amidi …
In un certo senso, si potrebbe considerare una alimentazione basata prevalentemente, se non quasi esclusivamente, sugli amidi, non molto dissimile dalla “carenza di zuccheri”: indipendentemente dalla valenza di “cibo consolatorio”, che il piatto di spaghetti della mamma può rappresentare, e a prescindere dalla ricerca di “dolce” connaturata al consumo dei cereali, occorre ricordare che gli amidi non sono altro che zuccheri polimerizzati.
Per quanto, a differenza degli zuccheri “puri” come glucosio e fruttosio che sono assorbiti immediatamente dopo l’assunzione, gli amidi comportino la necessità di essere digeriti per poter rilasciare il glucosio e renderlo assimilabile dall’organismo, il risultato finale è, comunque, un apporto glicemico prevalente; se questo non viene associato ad un sufficiente quantitativo di grassi e, soprattutto, proteine, non solo il piatto di pasta potrebbe non essere sufficiente a farci sentire sazi, ma si potrebbe manifestare un’ipoglicemia postprandiale (postassorbimento), con tutte le manifestazioni di “debolezza” della «carenza di zuccheri», innescando il «sugar craving cycle».
Anche i cosiddetti “cibi integrali”, spesso, sono più orientati a soddisfare il marketing che le esigenze nutrizionali salutari: l’aggiunta di fibre o crusca nel cibo non può in alcun modo essere considerata una soluzione in grado di rallentare l’assorbimento degli zuccheri presenti negli amidi, perchè è solo nell’alimento “integro” con la presenza di fibre e altre sostanze (cellulosa, fosfofruttoglicani, ceneri, proteine e acidi grassi polinsaturi …) a cui sono “naturalmente” legati gli amidi, che permette un lento assorbimento degli zuccheri e facilita la proliferazione di batteri simbionti in grado di coadiuvare l’organismo nella gestione della glicemia.
Occorre infatti ricordare che spesso i cosiddetti “alimenti integrali”, soprattutto nel caso in cui vengano sottoposti ad elaborazione (rottura, schiacciamento, laminazione, soffiatura, estrusione e/o cottura), devono essere “rinforzati” per fornire lo stesso pool di sostanze nutritive che si trovavano nei semi originari. La maggior parte delle farine di frumento integrale sono alimenti raffinati e successivamente addizionati: molti tipi di pane vengono colorati di bruno, con l’aggiunta di melassa o caramello, in modo che acquisiscano le sembianze di un prodotto integrale oppure la farina integrale è presente ma rappresenta un ingrediente quantitativamente marginale; viceversa, per assurdo, una “normale farina di frumento” potrebbe contenere una percentuale compresa tra l’1% ed il 51% di farina integrale, perchè il minor grado di raffinazione riduce i costi di produzione. Contrariamente a quanto si possa credere, la presenza di cereali integrali (o loro farine) non è sempre un buon indicatore di “alta percentuale di fibre”: in certi prodotti, l’incremento di fibre viene ottenuto grazie all’addizione con crusca, leguminose o altri ingredienti di origine vegetale; i veri prodotti integrali, come ad esempio i cereali, dovrebbero essere considerati tali solo e se non privati del germe che rappresenta la componente lipidica del seme (acidi grassi essenziali e vitamina E) anche se quest’ultima è facilmente deperibile per irrancidimento.
sapidità e salinità
Oggi come oggi il cibo non è solamente un alimento per nutrirci ma, spesso, è un “ornamento” del gusto: da sempre l’uomo cerca di rendere palatabili ed appetibili le sostanze nutritive, ponendo grande attenzione ai sapori; oltre che per favorire la conservazione degli alimenti, la salatura è un’attitudine molto utilizzata, assieme alle spezie, per aumentare la sapidità del cibo. Le papille gustative, infatti, diventano più ricettive grazie al sale e sono in grado di cogliere più sfumature: si tratta di una reazione chimica semplice ma allo stesso tempo fondamentale per gustare ancora meglio il sapore goloso degli alimenti ed è il motivo per cui in pasticceria, per esaltare il gusto dolce, si aggiunge un po’ di sale, essendo in grado di sopprimere la sensazione di amaro.
Il cloruro di sodio si scioglie facilmente in acqua e riesce a penetrare tutti i cibi: in soluzioni concentrate, ha la capacità di estrarre l’acqua dalle cellule e la sua presenza nei cibi ne migliora la conservazione in quanto inibisce la crescita e lo sviluppo di muffa e batteri; questo comporta che, spesso, ciò che assumiamo contiene maggiori quantità di sodio di quanto normalmente pensiamo. Anche se “mangiamo naturale”, vuoi per la presenza di questo sale minerale negli stessi alimenti, vuoi per l’aggiunta di cloruro di sodio, la quantità che assumiamo con gli alimenti può essere elevata: normalmente di tutto il sodio che introduciamo con i cibi, meno del 30% viene aggiunto durante la loro preparazione e cottura, mentre oltre il 60% deriva dal massiccio impiego di sale durante le lavorazioni e le trasformazioni industriali.
Più è salato il cibo, più si incrementa il desiderio di dolce e, quindi, di zuccheri; anche se i bambini, già alla nascita, sono istintivamente orientati al dolce, in quanto il glucosio rappresenta un’importantissima fonte di energia per l’organismo in crescita, per il neonato il salato non è un gusto particolarmente gradevole; anche se la ricerca di sale, nel cibo, può essere un indicatore di carenza di sodio associato ad uno stato di stress, in genere viene indotto come conseguenza dalle abitudini alimentari dei genitori. Infatti occorre una progressiva educazione al salato ed il fatto che si impari a ricercarlo, il più delle volte, è frutto di una progressiva assuefazione; per questo, la propensione al salato non è difficile da modificare/eradicare, in quanto è dimostrato che bastano tre settimane di dieta senza sale aggiunto, per abituarsi ad una alimentazione iposodica: riducendo il salato, diminuisce l’assunzione di cloruro di sodio e, di conseguenza, si decrementa il desiderio di zucchero.
il ruolo del microbiota
Più spesso di quel che si immagina, un’alterazione della flora batterica induce il senso di fame verso alimenti ricchi di zuccheri; sebbene non sia ancora chiaro il meccanismo, il microbiota, cioè i nostri “coabitanti” intestinali ovvero l’insieme di quei microorganismi simbiontici che popolano il tubo digerente, sono in grado di condizionare la richiesta di questa sostanza: nella genesi dei gusti alimentari o come “spinta” verso determinati sapori, entrano in gioco complessi fenomeni biochimici dipendenti non solo dalla nostra somato-emotività, ma anche dal nostro commensale, il convitato di pietra che vive dentro di noi.
Il nostro benessere gastro-intestinale e sistemico dipende dai rapporti equilibrati fra le differenti componenti che costituiscono l’ecosistema che ospitiamo al nostro interno: questo “organismo pluri-organismico” svolge l’azione di organo metabolico ed emozionale; se è vero che i nostri pensieri più profondi, le nostre emozioni, attraverso l’interazione neuro-immuno-endocrino-metabolica e alimentare, interagiscono con la nostra “pancia”, è altrettanto vero che il nostro “ventre” può condizionare la nostra somato-emotività. Questo fenomeno non si manifesta esclusivamente come conseguenza delle patologie che possono colpire l’apparato gastro-enterico, con le sequele che ne possono derivare, ma discende direttamente dalla capacità che il microbiota o alcune delle sue componenti microbiologiche possono esercitare sul “sentire”, sul “pensare”, sul “desiderare”, condizionando anche i nostri desideri alimentari.
Esistono proteine, prodotte da organismi che popolano l’intestino, che possono inibire l’introduzione di cibo attraverso la riduzione del desiderio e la diminuzione dell’appetito, o indirizzare le nostre scelte alimentari: un battere che popola abitualmente il nostro apparato gastro-enterico, l’Escherichia Coli, risente della presenza o dell’assenza di specifici nutrienti, che derivano dall’ingestione di cibo; sembra che questi microrganismi, per riprodursi più efficacemente e rimpiazzare gli elementi persi con le feci, siano in grado di “comunicare” con l’ospite attraverso l’attivazione della produzione di neuro-peptidi e ormoni intestinali, condizionando l’appetito e la scelta di determinate categorie di alimenti. Anche altri batteri, come l’Helicobacter Pylori, possono influenzare ciò che mangiamo, indirizzandoci a ricercare sapori o spingendoci verso gusti particolari, come conseguenza della modulazione della concentrazione degli zuccheri e del pH corporeo.
Un altro esempio dell’influenza che il microbiota esercita sulle nostre scelte alimentari è la complessa relazione fra il nostro corpo e la Candida Albicans, un lievito saprofita, che si trova normalmente sia nel cavo orale, sia negli intestini, sia a livello vaginale, ma che in determinate situazioni può divenire il principale responsabile di disfunzioni e patologie organiche, essere il “colpevole” di alterazioni del tono dell’umore e incidere significativamente sulle nostre preferenze nutrizionali. In condizioni normali, questo miceliale dimorfico svolge un ruolo rilevante nei processi digestivi, grazie alla sua azione saprofitaria e fermentante degli zuccheri e degli amidi; normalmente è un simbionte, quindi appartenente alla flora batterica “amica”, ma nella forma patologica diventa un parassita in grado di rilasciare tossine. Tipicamente, in caso di disbiosi intestinale con moniliasi, cioè iperproliferazione di Candida Albicans, si osserva un incremento del desiderio di zuccheri: normalmente questo fungo simbionte intestinale, collabora con l’organismo nella digestione degli zuccheri che arrivano nel colon, ma il suo incremento induce un aumento del fabbisogno di zuccheri per poter sostenere la replicazione e la colonizzazione intestinale.
Maggiori informazioni al riguardo sono reperibili nell’articolo “lo zucchero è solo la buona abitudine della felicità …„
«sugar craving» e Kinesiologia Transazionale®
Che si ponga l’attenzione sugli aspetti emozionali associati al «bisogno di dolcezza» o sulle cattive abitudini alimentari, che ci si trovi di fronte ad una disbiosi intestinale o a un’errata nutrizione, la Kinesiologia Transazionale®, grazie alla possibilità di effettuare una valutazione multidimensionale e di utilizzare il test muscolare come “strumento diagnostico” permette, all’operatore professionale di identificare quali possono essere le priorità di intervento.
Infatti non sempre una componente, nonostante possa apparire come prevalente, è in realtà quella fondamentale su cui agire, per fare un esempio, si può prendere in considerazione il problema della candidosi, come mezzo per comprendere meglio come le dinamiche sottostanti ad un problema siano, il più delle volte, articolate e complesse: nella maggioranza dei casi chi soffre di superinfezione da Candida Albicans, indipendentemente da dove sia localizzata, ricorre o a farmaci antimicotici (che invariabilmente spostano il problema nel tempo, senza risolverlo) oppure utilizzano i famosi “probiotici” grande moda degli ultimi anni.
Indipendentemente dall’efficacia del prodotto utilizzato, anche volendo escludere le componenti emotive associate a queste manifestazioni, se non si interviene sullo stress che normalmente sottostà alla infezione micetale, se non si migliorano i processi digestivi per permettere una gestione glicemica più efficace, se non si “resetta” l’organismo da un punto di vista psico-neuro-endocrino, solo per fare alcuni esempi, non si può non osservare l’azione fallimentare nel lungo periodo degli interventi standard che normalmente vengono applicati.
Il «bisogno di zuccheri», la «ricerca di dolcezza», ma soprattutto lo «sugar craving cycle» richiedono un intervento “olistico” che affronti i differenti aspetti coinvolti nel problema: l’operatore qualificato in Kinesiologia Transazionale®, nella sua qualità di professionista del ben-essere specializzato, possiede le conoscenze e gli strumenti necessari per interagire con chi soffre di queste manifestazioni, nella ricerca di soluzioni possibili, utilizzando come viatico i concetti alla base del «triangolo della salute»: grazie a tecniche come il profilo nutrizionale, la verifica della presenza di eventuali intolleranze alimentari, lo studio di un programma di miglioramento personalizzato sono solo alcune delle possibilità riportate a titolo esemplificativo; non bisogna poi dimenticare come le tecniche di reset e di normalizzazione possano facilitare il riequilibrio dell’organismo nella sua integrità.