sommario:
⇒ «confort food»: definizione
⇒ «confort food» e la sindrome di Proust
⇒ la buona abitudine della felicità
… sapori rassicuranti,
tranquillizzanti, rasserenanti …
stimolanti o gratificanti, spesso nostalgici …
… che ci ricordino la genuinità dei cibi che mangiavamo dalla nonna o che siano «junk food», pieni di grassi, salse e conservanti, il “cibo che consola”, che ci vezzeggia, che ci vizia e ci lusinga, che ci rincuora e riscalda nei momenti “no” della nostra vita, ricordandoci l’infanzia, i momenti felici …
Alzi la mano chi non ha sentito il bisogno, almeno una volta ogni tanto, di lasciarsi lusingare da qualche alimento capace di coccolarci! … da quel cibo o da quella pietanza di cui sentiamo il bisogno per tirarci su, che ci sembra in grado di ristorarci nell’anima, rinfrancarci nel corpo: un cordiale che ci scalda il cuore od un piatto che, dopo una giornata decisamente negativa, ha il potere di farci sentire protetti, coccolati o appagati!
Ognuno ha il proprio confort food, ognuno ha il suo personale ed unico cibo del cuore, che ci accompagna per tutta la vita, che ci gratifica, rassicura, calma e, talvolta, è in grado di “anestetizzare” la nostra tristezza o melanconia.
«confort food»: definizione
È un termine inglese, traducibile con “nutrizione consolatoria”, utilizzato per identificare alimenti o sostanze ricercate non solo per le loro caratteristiche nutrizionali o organolettiche, ma per la valenza emozionale che provocano in chi li consuma; questo tipo di cibo favorisce un senso di piacere a chi lo assume, soddisfacendo un bisogno emotivo e generando sensazioni di benessere psico-fisico e somato-emozionale: confort food è stato utilizzato ufficialmente per la prima volta da un giornale americano (il Palm Bech Post, nel 1966) per descrivere il fatto che
«gli adulti, quando subiscono forti stress emotivi, si rivolgono a quelli che possono essere definiti come confort food, cioè a cibi associati ad un senso di sicurezza che risale all’infanzia, come l’uovo in camicia della mamma o il brodino di pollo.»
Sono diversi i fattori che possono scatenare la necessità o il desiderio di trovare conforto nel cibo, in quanto il bisogno può essere originato dallo stress, dalla nostalgia o da un momentaneo turbamento emotivo: quando assume un ruolo di “nutrizione consolatoria” può innescare fenomeni di vera e propria dipendenza; il desiderare ardentemente o addirittura bramare un qualche tipo di sostanza per provare sensazioni di benessere, di conforto, di consolazione, di piacere, è una forma di compensazione ad uno stato di disagio emozionale, sostenuto da un’alterazione somato-chimica e neuro-endocrina.
L’aggettivo inglese «comfort», in questo contesto, si presta a più interpretazioni, cioè rappresenta sia la capacità del cibo di rasserenare, consolare, coccolare o rincuorare ma anche quella di ristorare; infatti se pensiamo al cibo non solo come mezzo per gratificarsi e (ri)compensarsi ma come veicolo per ritrovare una situazione di ben-essere, allora comprendiamo come gli alimenti possano assumere un ruolo nutritivo e curativo.
Frequentemente una caratteristica comune a questi alimenti è l’elevato apporto calorico che li contraddistingue oppure il fatto di essere dolci, spesso molto “zuccherosi”, o grassi, energizzanti, sapidi e salati: questa loro caratteristica sembra possa attivare i centri cerebrali della gratificazione, fungendo da “farmaci” in grado di modificare il tono dell’umore, coinvolgendo le vie dopaminergiche ed il Sistema Limbico.
Che si parli di cibo nostalgico, autoindulgente, precotto (in genere ad elevato contenuto di additivi) o “psicologicamente gratificante”, il rapporto col cibo deve essere sempre considerato una forma di idiosincrasia, cioè una reattività abnorme individuale (in questo caso non negativa) nei confronti di una particolare sostanza, anche se si possono notare preferenze di genere o tribali: gli uomini tendono a preferire pasti caldi ed energizzanti, come comfort food, mentre le donne prediligono snack come gelati o cioccolata; in qualche modo questi alimenti fanno riemergere sensazioni positive come il sentirsi viziati e coccolati (per gli uomini, dalla mamma), o a momenti di svago e relax oppure fungendo talvolta da trigger in grado di far coabitare il senso di colpa e la gratificazione di poterlo fare, come quando di consuma uno snack (in particolare ipercalorico, nelle donne).
In alcuni casi, l’associazione fra la “nutrizione consolatoria” e lo stress emotivo è talmente marcata, da dover essere considerata una forma maniacale che porta immancabilmente ad un aumento del grasso corporeo (in particolare a livello addominale) con attivazioni ormonali e coinvolgimento dell’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene.
«confort food» e la sindrome di Proust
Si potrebbe affermare che alcuni cibi attivino una sorta di effetto trigger positivo, cioè inducano un senso di benessere anche se chi ne trae beneficio non sa bene il perché; altre volte si può osservare una vera e propria “sindrome della Madeleine de Proust”, per la valenza nostalgica e sentimentale che assumono, come accade a Swann, il protagonista de «À la recherche du temps perdu – Du côté de chez Swann» di Marcel Proust, dove un sapore, attraverso un flashback, fa riemergere ricordi positivi dal passato, come descrive nella traduzione dal francese Maria Teresa Nessi Somainia per Mondadori Editore:
«Al mio ritorno a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di bere, contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, cambiai idea. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti che chiamano Petites Madeleines e che sembrano modellati dentro la valva scanalata di una “cappasanta”.»
«E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un domani malinconico, mi portai alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato che s’ammorbidisse un pezzetto di madeleine.»
«Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua casa. Di colpo mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, quell’essenza non era dentro di me, io ero quell’essenza.»
«Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente mortale. Da dove era potuta giungermi una gioia così potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo superava infinitamente, non doveva condividerne la natura.»
«Da dove veniva? Cosa significava? Dove afferrarla?»
«Bevo una seconda sorsata nella quale non trovo di più che nella prima, una terza che mi dà un po’ meno della seconda. È tempo di smettere, la virtù della bevanda sembra diminuire.»
«È chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. È stata lei a risvegliarla, ma non la conosce, e non può far altro che ripetere indefinitamente, con la forza sempre crescente, quella medesima testimonianza che non so interpretare e che vorrei almeno essere in grado di richiederle e ritrovare intatta, a mia disposizione (e proprio ora), per uno schiarimento decisivo.»
«Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito. Tocca a lui trovare la verità…»
La potenza consolatoria, in grado di confortare lo spirito, che rende un cibo o un sapore «comfort food», in questo caso è il potere della reminiscenza, che fa emergere una serie di sensazioni positive, confortevoli e confortanti; emozioni che vogliamo riprovare e che, cerchiamo di riprodurre rivolgendoci col pensiero al momento in cui le abbiamo provate per la prima volta o rinnovando l’esperienza. Una volta scoperto quel particolare conforto che deriva da quello specifico cibo, col suo inconfondibile profumo e dal sapore unico e singolare, diviene il viatico attraverso cui riprovare un senso di pace e tranquillità, di serenità e sicurezza.
«Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito. Tocca a lui trovare la verità … retrocedo mentalmente all’istante in cui ho preso la prima cucchiaiata di tè. Ritrovo il medesimo stato, senza alcuna nuova chiarezza.»
«Chiedo al mio spirito uno sforzo di più … ma mi accorgo della fatica del mio spirito che non riesce; allora lo obbligo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a rimettersi in forze prima di un supremo tentativo.»
«Poi, per la seconda volta, fatto il vuoto davanti a lui, gli rimetto innanzi il sapore ancora recente di quella prima sorsata e sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi …»
«All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di madeleine che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio ….»
Ovviamente si può verificare una situazione opposta, cioè può accadere che quel particolare sapore o quel gusto marcato, quel profumo o quell’odore che contraddistingue quell’alimento scateni un effetto trigger, cioè induca in noi un senso di malessere, anche se non siamo consapevoli del legame emotivo sottostante a tale manifestazione: il frutto avvelenato di un ricordo seppellito nella nostra mente che può essere talmente potente da causare l’inconsapevole rifiuto di questo «dis-comfort food» o addirittura provocare forme di “allergia”, che sarebbe più opportuno chiamare «intolleranze alimentari» o «allergie non allergiche»; manifestazioni così potenti da poter causare vere e proprie sintomatologie gastro-intestinali o sistemiche, espressione della somatizzazione del nostro disagio.
la buona abitudine della felicità
Nell’ambito dei “cibi ad azione rassicurante”, amidi e zuccheri occupano sicuramente una posizione di rilievo; il nostro cervello che ci “ordina” di “riempire il vuoto” attraverso il cibo, come se “qualcun altro” avesse preso il controllo: attraverso il cibo, con le sue componenti energetiche e vibrazionali, non solo assumiamo gli elementi fondamentali per “edificare” il nostro io, ma, sincronicamente, permettiamo l’interazione fra l’ambiente che ci circonda ed il mondo interiore che ci appartiene, in quanto le sostanze che assumiamo, con le loro combinazioni e le particolari sinergie che caratterizzano ogni alimento, rappresentano necessità emozionali che l’organismo ci richiede.
Allo stesso tempo, le nostre esigenze biochimiche influenzano i nostri “desiderata”, diacronicamente, senza che nemmeno ci accorgiamo che, in realtà, bisogni nutrizionali e urgenze somato-emotive, si sovrappongono: il desiderare ardentemente o addirittura bramare un qualche tipo di confort food è sostenuto dal bisogno di provare sensazioni di benessere, di conforto, di consolazione e di piacere, cioè è una forma di compensazione ad uno stato di disagio emozionale, sostenuto da un’alterazione somato-chimica e neuro-endocrina.
In parte, attraverso ciò che “trangugiamo” introduciamo sostanze che possono avere un’azione ormono-simile o metabolica: ad esempio, alcune granaglie, contengono catene polipeptidiche e frammenti proteici che svolgono un’azione morfino-simile sul sistema nervoso, trasformando un alimento in una potente droga endorfinica, il cui effetto viene potenziato, se questi alimenti sono associati a sostanze zuccherine; ugualmente dobbiamo considerare che l’incremento glicemico che deriva dall’assunzione di carboidrati o amidi, stimolando la secrezione dell’insulina aumenta la concentrazione del triptofano circolante (amminoacido presente in alta concentrazione in molte graminacee), con la conseguenza di ottenere il potenziamento dell’azione della serotonina a livello cerebrale, favorendo i fenomeni di autogratificazione ed appagamento, anche se si generano spesso meccanismi di “dipendenza” psicologica.
Il risultato finale è che non si mangia per soddisfare l’appetito, ma per placare le emozioni “negative”, trasformando le voglie o il desiderio di «comfort food», cioè in “alimenti di conforto”: strumenti per compensare temporaneamente o anestetizzare disagi emotivi, calmare tensioni o colmare vuoti interiori, in un processo di rassicurazione, appagamento o gratificazione alimentare; se da un lato determinati squilibri nutrizionali possono avere un’incidenza negativa non solo sul tono dell’umore, ma anche sulla funzionalità dell’intero sistema neuro-endocrino, dall’altro vi sono alimenti (noci, nocciole e mandorle oppure cioccolato e cacao) che, per natura favoriscono il rilascio di endorfine, dopamina, serotonina, con conseguente miglioramento del tono dell’umore e riduzione dello stress organico.
Oltre alla combinazione di aspetti psicologici e neuro-fisiologici o endocrini, nella genesi dei gusti alimentari o come “spinta” verso determinati sapori, entrano in gioco anche complessi fenomeni biochimici dipendenti non solo dalla nostra somato-emotività, ma anche dal nostro commensale, il convitato di pietra che vive dentro di noi: il microbiota, ovvero l’insieme di quei microorganismi simbiontici che popolano il tubo digerente; questo “organismo pluri-organismico” è un sistema organizzato, costituito da differenti entità fra loro connesse e interdipendenti in una dinamica di collaborazione, simbiosi e mutualismo che dovrebbe essere considerato un vero e proprio organo metabolico fondamentale per il nostro benessere ed il nostro equilibrio.
Il nostro “ventre”, attraverso le nostre sensazioni di pancia”, non solo può condizionare la nostra somato-emotività e, di conseguenza, la ricerca di cibi compensatori o consolatori, ma può influenzare le nostre scelte alimentari attraverso la capacità che il microbiota stesso (o alcune delle sue componenti microbiologiche) esercita sul “sentire”, sul “pensare”, sul “desiderare”, condizionando anche i nostri desideri alimentari: un risultato di questo fenomeno è l’insorgenza del tipico “sugar craving” e del “bread craving”, cioè dell’urgenza emozionale ad incrementare l’apporto di carboidrati, soprattutto in presenza di situazioni di di-stress che causino senso di stanchezza o manifestazioni di burn-out, tipicamente espressioni della fase di vigilanza o di esaurimento della risposta generalizzata di adattamento.
Difficoltà di concentrazione, tendenze depressive, alterazioni del tono dell’umore, sensazione di avere scarsa energia e senso di fatica cronica, vengono invariabilmente accompagnate da fame compulsiva, ricerca di sostanze eccitanti o stimolanti, cibi ad alto tenore di carboidrati e grassi; come direbbe la “tata” Lucia Rizzi:
«lo zucchero è solo la buona abitudine della felicità che ci permette di continuare a sorridere anche quando le cose non vanno come vorremmo»